Suor Sabrina Cavazzana: missionaria in Argentina

Suora Salesia, è tornata da un anno dal Sud America e ci rilascia un'intervista

Suor Sabrina, da dove viene?  Mi chiamo Sabrina Cavazzana, sono una suora di San Francesco di Sales, nata ad Abano Terme, in provincia di Padova. Dal luglio 2021 sono venuta in diocesi, tra Piedimonte ed Alvignano, però ho fatto esperienza di missione per sette anni in Argentina.

Argentina, quindi la terra di Papa Francesco e precisamente dove è stata?   A Cordoba, un’importante città al centro del Paese, di oltre 1.500.000 abitanti. La mia esperienza si è concentrata su due parrocchie in periferia; una di queste con più di 100.000 abitanti. Era suddivisa in 14 “cappelle”, come se fossero state 14 piccole parrocchie. A quel tempo c’erano solo due sacerdoti per tutta la zona e noi suore eravamo in tre, avevamo una di queste cappelle, che praticamente era un salone, dove si facevano moltissime attività, soprattutto con i bambini, i giovani: il doposcuola, la catechesi, la formazione del gruppo della Cresima, del gruppo dei giovani e poi la comunione agli ammalati, e tante altre, coadiuvati dalle famiglie e da numerosi volontari.

Quando è arrivata in Argentina, si è sentita accolta?   Oh sì mi sono sentita molto accolta. Essendo italiana, tutti mi avvicinavano e si preoccupavano di farmi sentire a casa, dicendomi “Anch’io sono italiano”, lì c’è stata una forte immigrazione di italiani.

Qual è la cosa che l’ha colpita di più?  Ho trovato una povertà che non mi aspettavo e così sono andata un po’ in crisi, perché mi convincevo che tutta la mia voglia di conoscere o di aiutare non avrebbe risolto nessuno dei problemi che vedevo. Ma allora perché sono qui? – mi chiedevo – che cosa dovrò fare? Poi mi sono accorta che non era tanto il “fare”, ma l’“esserci”, essere presente, essere vicina, ascoltare. Ciò che facevo non era tanto farlo per gli altri, ma diventava per me un arricchimento e quindi ho cominciato anche a vivere una fede diversa. E quello che mi ha colpito di più in Argentina è stata proprio la fede della gente, di tutti, soprattutto dei più poveri, che credono fermamente che Dio provvederà. Una fede viva in cui tutti camminano insieme per scoprire l’amore di Cristo. Ad esempio, una mamma con quattro bambine in difficoltà, pur dandosi da fare, che ti dice “io non mi preoccupo, credo e qualcosa arriverà” e così avviene; oppure quelli di ceto più alto che si offrivano volontari, che per fede ti chiedevano “cosa posso fare per gli altri, cosa posso offrire”, mettendosi completamente a disposizione dei meno abbienti.

Mettersi a disposizione della comunità, perché tutto appartiene a tutti, “contagiati” da una grande solidarietà, questo sentirsi fratelli, condividere e non rimanere sulle proprie sicurezze io l’ho imparato in Argentina.

Che valore dà alla Provvidenza nella sua esperienza?  Una cosa che ho scoperto, imparato e che mi ha meravigliato in missione è stata la provvidenza e questo mi ha fatto riflettere molto, perché ho capito che la provvidenza arriva quando non hai niente. Noi in Italia, in Europa, siamo abituati oltre ad avere tutto, ad avere sempre delle riserve in casa nella dispensa (più pacchi di pasta, sale, zucchero, biscotti…). In Argentina non è stato così, perché anche noi suore in periferia dovevamo vivere di quello che arrivava, di quello che ci donavano, perché dovevamo pensare prima ai poveri e anche la nostra dispensa era spesso vuota. Una volta, ad esempio, c’era solo un litro di latte per i bambini, allora c’era un quadro di San Giuseppe in cucina e cominciai a pregare: ”Tu che sei stato così attento e buono con Gesù, devi prenderti cura anche dei nostri bambini”; e nel giro di un’ora suonava il campanello e il latte arrivava, oppure l’olio appena distribuito giungeva da un altro donatore…

Ho capito che l’aiuto di Dio non manca se uno si affida a Lui; se io ho già tutte le sicurezze, come in Occidente, neanche gli chiedo aiuto; devo sperimentare di essere vuota per chiedere con fede, per essere toccato da Dio e io ringrazio tanto il Signore per questa esperienza.

Com’è l’attività pastorale in Argentina?  E’ molto partecipata. Ricordo infatti la meraviglia alla mia prima messa. C’era il Vangelo di Marco 8,27-35, in cui Gesù ci chiede “Chi dice la gente che io sia?” e il sacerdote, durante l’omelia, è sceso tra la gente, anziché stare all’ambone, stimolando tutti a immaginare che se Gesù fosse stato in mezzo a loro, quale sarebbe stata la risposta. Tutti si sono sforzati di rispondere senza vergogna e senza timore, anzi con entusiasmo, ad una domanda che per me era assolutamente personale; e ho apprezzato molto questo coinvolgimento e la naturale spontaneità, creando un clima di famiglia nell’assemblea, molto rassicurante.

Un’altra cosa positiva è quella che io chiamo pastorale avanzata, cioè le attività della parrocchia affidate quasi completamente ai laici. Ricordo la prima sera che sono andata in questa comunità, venne una mamma per chiedere il battesimo al suo bambino, subito le venne dato appuntamento al sabato successivo per la formazione al Sacramento e tra quindici giorni per la messa. Dove eravamo noi la messa veniva celebrata ogni due settimane il sabato sera, perché i due sacerdoti si dividevano tutte le zone a turno. Il sabato della formazione venne una laica sui settanta anni preparatissima, che si preoccupò di fare catechesi alla famiglia. E poi per i bambini non c’era la lezione frontale, ma giochi e dinamiche, ricondotte tutte alla Parola, che è sempre presente, con il Vangelo, allestito proprio su un tavolino con una candela, con il tappetino. I bambini si siedono e parlano di come la Parola serve per la nostra vita. Dunque in Argentina, laici e religiose hanno pieno accesso alla pastorale.

Com’è il rapporto delle parrocchie con le istituzioni?  Da quello che ho vissuto, manca questo tipo di rapporto con il Comune di Cordoba, ma viene superato dall’iniziativa o personale o di associazioni, che cercano di arrivare dove c’è bisogno. Per esempio, un lavoro encomiabile svolge l’Associazione “Manos abiertas”, fondata nel 1992 dal gesuita Padre Angelo Rossi. Con il suo motto “Amar y servir” si occupa di chi vive in solitudine e nella fragilità, ora sviluppatasi in dodici città; svolge tutte le attività: dalla formazione dei volontari, agli interventi in rete con il territorio, con le parrocchie, con altre associazioni. Per cui gli aiuti arrivano senza ricorrere a strutture istituzionali e quindi questo lascia spazio all’iniziativa privata da cui forse giunge anche un aiuto più concreto.

La Giornata Missionaria Mondiale di domani, 23 ottobre 2022, porta il titolo “Di me sarete testimoni”, e fa parte di un percorso che la Fondazione Missio ha realizzato in questi ultimi anni: Tessitori di fraternità nel 2020, Testimoni e Profeti nel 2021 e Testimoni nel 2022.

I missionari sono dunque testimoni e quindi cosa ha portato nello zaino del missionario ritornando in patria? E come è testimone oggi qui in questo territorio?  Prima di tutto il testimone è uno che ha incontrato Cristo. Prima di partire, ho comunque vissuto molte esperienze di parrocchie e di comunità qui in Italia, ma come ho detto in precedenza, non è stata la stessa cosa. Dall’Argentina mi porto, insieme al dolore per la disparità tra ricchi e poveri, una effervescenza della vita, che nonostante la povertà si realizza e soprattutto cerca anche le forze per farlo e questo grazie alla Fede viva, semplice e autentica, nella concretezza quotidiana.

Tornando dopo sette anni in Italia, ho visto una profonda differenza. Purtroppo qui ho notato l’invecchiamento, la staticità, la paura del nuovo, il volersi per forza appoggiare a delle sicurezze prima di fare un passo. Questo lì non esiste perché ci si affida; può essere giusta una sorta di programmazione, ma bisogna anche lasciarsi un po’ andare e affidarsi a Dio, perché si rischia di non fare nulla e lasciar passare gli anni, rimanendo nell’immobilismo.

Sono tornata diversa, cambiata; il mio sguardo sembra che vada più al cuore delle persone. Vedo tante ragazze e ragazzi per strada che tornano da scuola; vedo gli ottanta animatori del GrEst di questa estate e mi chiedo “Cosa cercano questi giovani? Cosa vogliono? Si chiedono che senso ha la vita?” e io cammino con loro, provo a mettere dentro di loro degli interrogativi, non ho risposte, però è così bello pensare che lì c’è vita e dove c’è vita può esserci la fede.

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